Riassunto personale di una terribile settimana di festival Sanremo, che ha trasbordato come la merda dai tubi in tutti gli spazi terracquei dei giornali, della tivù e dei social network.

Il festival della fu canzone è diventato una sfilata di codici etici e morali nuovi solo in apparenza. L’Ariston, da palcoscenico della melodia italiana, si è trasformato nel baccanale della propaganda spiccia. Un minestrone di esibizioni con ingredienti mal conciliati e talvolta mal digeriti. In quanto scadenti o scaduti.

Sanremo è nazionalpopolare perché soddisfa sia i fantasiosi della gerontofilia che quelli della pederastia.
Tra una stecca musicale del vecchio Pooh e un rap(tus) di un Blanco spiantato, è stato un profluvio di vecchie oscenità spacciate per normali novità.

Il filo conduttore è stato l’applauso. Che sul palco abbia sfilato una sbiadita Ferragni che pareva reduce da uno sciopero della fame, o una spilungona Egonu che nemmeno l’elegante lenzuolo bianco mitigava quell’inestetico sorriso gengivale, l’importante è stato approvare.

Tutto andava esaltato all’insegna della tolleranza del faceto misto all’orrido, (ce ne sarà voluta a quintali per reggere una passerella così). Faccio un esempio: se per satira dicessi che in quel quadretto Egonu così alta sembra una giraffa passerei per razzista segnalato, denunciato e lapidato. Se sempre per satira dicessi che in quel quadretto Morandi e Amadeus sembrano due bassotti provocherei al massimo qualche innocua risatina.

Data la mancanza di par condicio e di tolleranza all’intollerante non sosterrò nessuno dei due esempi, visto che qualche ben pensante mi starà già dando dell’invidioso acidoso o razzista.
Ricordo tuttavia che la libertà di espressione manifestata su un palco è para para alla libertà di critica e di giudizio di chi approva o disapprova. Intendo dire che non esiste solo l’applauso. Esistono anche la compassione, la condanna e il senso di schifo. Sensazioni umane che meritano rispetto al pari di tutto il resto.

Un palco della canzone, (pagato col canone in bolletta) regalato a un branco di pagliacci che prendono a calci i fiori o alzano il ditino medio a favor di telecamera, fa scattare in vecchi boomer come il sottoscritto un senso di difesa del proprio pudore. Del proprio diritto alla distinzione.

Lo schifo da sbocco provocato da un finto “bareback” anale tra Fedez e Rosa Chimical a chiudere il cerchio di una settimana televisiva mostruosa, non è tale perché sia fatto tra veri o presunti gay. E’ da sbocco perché tocca il pudore che quelli come me si portano dietro da quand’erano bambini. Ci hanno insegnato così. Ci hanno detto che le sporcacciate è meglio farle nel chiuso della propria intimità. Col sapore del segreto e della trasgressione. Senno diventa un atto osceno in luogo pubblico.

Fingere di fottersi il deretano sui divanetti è visibilmente violento. E’ il perfetto contrario dell’epitaffio della povera Ferragni che ululava alla luna contro la violenza fisica. Simulare la sodomia in pubblico con quell’aria da promiscui, non è insegnare amore. E’ solo un modo di accomunare il genere umano alle scimmie. E’ una forma di razzismo.

Slinguare appassionatamente davanti a tutti fa schifo a prescindere. Che si tratti di etero o gay, atteggiarsi così è segno di maleducazione e di spudoratezza. Al pari di fellatio a 69. Ci disturba se esibito in un contesto così variegato, dove gli spettatori potrebbero essere dei piccoli indifesi.

Qui non c’è sessismo, c’è solo educazione civica trasformata in evacuazione cinica. A noi boomer è rimasto il senso del limite e della continenza. Per noi il pudore significa senso di avversione e difesa nei confronti degli aspetti equivoci e morbosi del sesso.

Ma visto che verrò smentito dai fan dell’amore libero, mi aspetto che l’anno prossimo sul palco dell’Ariston Fedez o chi per lui slinguerà un cane.

Anche allora sarà libertà di espressione e di conseguenza libertà di indignato giudizio. A ogni bruttezza spetta la propria pubblica e sacra condanna. Da non confondere con l’odio, che non c’entra niente con la disapprovazione e la gogna.

Un festival della canzone che apre agli spinelli resta una manifestazione diseducativa. Un’occasione per il governo Meloni di pensare a iniziative anti-rave party, visto che ci teneva a inizio mandato.

Per finire, anche quest’anno Sanremo ha perso l’occasione di essere un evento interessante e divertente. Ha proposto modelli che per noi boomer erano già superati da decenni, memori dei cilum, dell’eroina, dei saluti romani e delle masturbazioni da palco (i Bob Marley, i Jim Morrison, i Bowie, i Check Berry che almeno erano musicisti veri).

Noi rimasti ancorati alla difesa e alla distinzione del genere maschile e femminile, ci aspetteremmo che una manifestazione canora dia il là alle idee per il futuro. Non alle pagliacciate interpretate da gente incapace che non sa cosa sia la musica e il canto.

L’unico canto rimasto a Sanremo è quello del cigno. Giù il sipario.

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