Sento di dover rendere un piccolo omaggio al paesello in cui sono nato e cresciuto: Romano di Lombardia, che dal 1962 si onora del titolo di città benché di underground abbia solo tre sottopassi ferroviari. Sì, di quella linea Torino-Venezia che con i suoi rapidi di passaggio a tutta, trascina fin qui vampate di aria metropolitana della vicina Milano. Città perno e di riferimento di molti miei ex concittadini, pendolari per intere generazioni dapprima come contrabbandieri di confine tra il Ducato meneghino e la Repubblica di Venezia. Poi da manovali della vituperata crescita di quella che oggi rimane la metropoli dell’avanguardia europea. Del resto da queste parti non si ostenta presunzione quando si dice che Milano l’hanno costruita i bergamaschi, con le loro imprese edili e le loro piccole aziende. E’ infatti grazie alla vicinanza geografica col capoluogo lombardo se decine di città e cittadine satellite come Romano, hanno vissuto floridi periodi di ricchezza e abbondanza. Io stesso, fin da bambino, ho respirato lavoro in mezzo a decine di piccoli e medi imprenditori. Ricordo che era un’onta parlare di disoccupazione perché i disoccupati, una volta, a Romano come in tutta la bergamasca non esistevano. Quei pochi che non lavoravano e che non pagavano il conto dal bottegaio, erano quasi sempre considerati dei semplici disadattati ai ritmi frenetici della laboriosa Lombardia. Li conoscevamo tutti “i lazarù“. Erano le pecore nere del villaggio, oggetto di battute e di scherno.

Io che ho solo 40 anni, ho visto molti miei coetanei abbandonare gli studi in terza media perché avviati al lavoro da genitori che consideravano la scuola un percorso non monetizzabile. Io stesso, a 13 anni, fui costretto a completare le scuole dell’obbligo a un corso serale per contribuire al reddito familiare. Non avevo alternative con un padre costretto a letto da un incidente d’auto e il dipendente al servizio militare. E del resto, all’epoca, sembrava giusto così. La scuola superiore, benché abbia dovuto sgomitare per andarci, la ricordo percepita come un privilegio e una via di fuga dal mondo del lavoro che si mostrava in tutta la sua prepotente varietà, benché la sua scomparsa con la crisi economica fosse sempre stata solo un’eventualità consapevole, ma altrettanto remota. Chi di noi, nella piccola Romano, ricorda un solo disoccupato negli anni Settanta, Ottanta e Novanta? Come dimenticare le decine di aziende e aziendine a conduzione familiare dell’indotto che davano lavoro a migliaia di persone? Chi non ricorda la quantità di giovani che affollavano i bar e i pub cittadini? Come dimenticare gli spettacoli e gli artisti che a Romano riempivano stadi e teatritenda di pubblico pagante? E prima ancora? Chi non ricorda il mito della Pagliarini caramelle che da Romano esportava dolciumi in tutta Italia! Senza contare la Magneti Marelli e “la cartiera”, che assieme sfamavano migliaia di famiglie romanesi contribuendo al benessere economico generale.

Ecco, era quella la Romano orgogliosa (forse un po’ dopata) che mi aveva formato a un modello che pareva eterno. Era da quel vigore economico che avevo imparato a conoscere la prima Romano multietnica (è ancora in giro il vù cumprà che parla dialetto?) e visto scaturire percorsi alternativi offerti dalla vicina Milano con la generazione di buoni sportivi, (Moro e Seghezzi nel calcio e Ceresoli nell’atletica), di buoni medici (come il biologo Vescovi), di buoni musicisti (eredi del tenore Rubini) ma anche di buoni pittori sebbene la città abbia raggiunto il culmine della notorietà con la romanese Rosangela Bessi, eletta Miss Italia nel 1990.

Benché Romano oggi possa vantare giovani come la campionessa italiana di salto in alto Raffaella Lamera, e benché io da Romano me ne sia andato ormai da 15 anni, non riesco a giustificare come la mia città possa essere sprofondata in prima pagina per un disperato armato fino ai denti che irrompe all’estattoria delle tasse. Benché la Cartiera, la Pagliarini e tante piccole aziende familiari fallite siano diventate archeologia della Lombardia da bere, mai e poi mai avrei immaginato che un episodio nazionale inedito di questa portata si sarebbe svolto proprio nel mio amato paesello, lungo una strada che percorrevo in allenamento da ragazzino. Durante quel pomeriggio di angoscia in cui Luigi Martinelli stava tenendo sotto sequestro un impiegato dell’ufficio delle entrate di Romano, non ho resistito all’idea di precipitarmi lì, al mio paesello camuffato da città per rendermi conto di cosa stava succedendo. Ed è stato lì, durante quelle 3 o 4 ore di permanenza, che ho avuto modo di rivedere vecchi amici e conoscenti dell’epoca in cui a Romano si lavorava.

Li ho rivisti tutti un po’ invecchiati (chi in peggio,chi in meglio) ma tutti accomunati dallo stesso problema del lavoro. Chi disoccupato, chi licenziato, chi a part-time, tutti erano lì, dietro le transenne della zona rossa dell’ufficio delle Entrate ad aspettare il corso degli eventi con un velo di arrendevole apatia. Tutti lì, in un pomeriggio senza lavoro curiosi di sapere chi fosse “il fratello” là dentro che aveva attirato in città tutte le troupe televisive. Tutti lì, senza parole di biasimo per l’attentatore, ma al contrario con cenni di considerazione e di comprensione. Tutti lì, a distrarsi dall’onta di un lavoro che non c’è più e di impegni che non si possono più onorare.  Tutti lì, ad attendere vampate di aria metropolitana che si è trasformata in tempesta su un modello economico che non tornerà più. Tornerà invece presto libero Luigi Martinelli che ha reso famosa la mia “povera” Romano per un episodio che non avevamo visto nemmeno in Grecia.  Ecco, questo omaggio al mio paesello affinché non si avvii a diventare il simbolo del fallimento economico di questo Paese.

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