Nel mare magnum della crisi economica, a parte la minoranza che ci guadagna tipo i gestori di locali di slot machine che stanno rimpiazzando ovunque negozi, botteghe e piccole attività commerciali, va fatta una piccola fotografia sulla situazione dell’editoria italiana. La pubblicità sui giornali e sulle televisioni è in costante calo dal 2007. A fine 2011, secondo i calcoli del sindacato lombardo giornalisti, ha subito una perdita di 3 miliardi di euro. E se il 2012 si chiuderà con un ulteriore meno 13% rispetto al 2011, nel 2013 l’investimento previsto per l’intero settore (carta stampata, tv, web) sarà di 7,5 miliardi. Metà dei quali sarà assorbita dalla televisione, il 16% da internet e il 20% diviso tra quotidiani e periodici. Nell’anno nuovo potrebbero chiudere il 40% dei giornali italiani nonostante i (ridotti) finanziamenti pubblici all’editoria, tanto che in gennaio si prevedono manifestazioni in piazza dei giornalisti. Sì, proprio loro, quelli che normalmente in piazza ci vanno per documentare le proteste di altre categorie di lavoratori.

Dati alla mano, da gennaio di quest’anno ad oggi, sono state aperte 150 vertenze al ministero dello Sviluppo economico. A rischio ci sono 30 mila posti di lavoro. La Confcommercio, che per fine 2012 stima la chiusura di 65 mila negozi da sommare alle 105 mila imprese che hanno chiuso i battenti nel 2011, registra 58 aziende editoriali che hanno fatto ricorso allo stato di crisi. Cassa integrazione e contratti di solidarietà, a fine dello scorso settembre, hanno coinvolto ben 1.139 giornalisti italiani, di cui 720 in Lombardia. Le televisioni regionali, anche le più importanti come Telelombardia, hanno messo in cassa integrazione diversi dipendenti. I tanto vituperati talk show, vengono ormai trasmessi senza cameramen e con conduttori che chiamano personalmente gli ospiti. Alcune storiche tivù come Telereporter (a stampo leghista), sono già scomparse. La Profit, proprietaria delle frequenze, sta cercando di venderle per incassare 20 milioni che serviranno a pagare gli arretrati dei dipendenti e dei fornitori. Il calo degli ascolti televisivi è costante sia per la crescita di Internet, sia per la frammentazione derivante dalla vasta offerta di canali in digitale terrestre.

In questo bollettino di guerra, anche Internet non esce indenne dalla crisi. Nel 2012, per la prima volta da quando esiste, gli investimenti pubblicitari in Rete non sono aumentati. Si sono stabilizzati, e per il 2013 non si prevedono incrementi. La tendenza ci dice che l’informazione in rete è destinata a ridursi sempre più a buon mercato, fino alla totale gratuità. Col risultato che la figura del giornalista diventerà come quella dello spazzacamino. Una professione estinta, legata a una lunga era costituita da un’industria editoriale strutturata sulla carta e sul business delle frequenze televisive. Un lavoro che con l’aumento progressivo dell’utilizzo della rete come strumento di interazione, avrà sempre meno opportunità  di svelare scandali e inchieste, perché l’immediatezza della rete non permetterà più furberie e ruberie protratte nel tempo. La crisi odierna dell’editoria era stata ampiamente prevista. Chi non si è saputo rimboccare per tempo a trovare alternative, sta passando i guai. Del resto, indietro non si torna più. Nel mare magnum della crisi, senza idee e senza capacità di adeguarsi alle trasformazioni repentine che la presenza della rete ci impone, non si vede terra. Remiamo, e si salvi chi può.

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