Vent’anni di euro in Italia hanno prodotto un progressivo e inesorabile impoverimento degli italiani. Un solo esempio: con un euro scambiato a 2.000 lire, il prezzo del caffè raddoppiò: da 1.000 lire che costava nel 2001 passò a un euro nel 2002. La benzina da 2.000 lire al litro a due euro o quasi. Mentre gli stipendi da un milione di lire passarono a 516,46 euro con precisione chirurgica. Questa non è la nostra percezione anomala dei freddi numeri degli statistici che difendono la moneta unica, ma un cambio tangibile che ci ha portato a sborsare di più di prima.
I presunti vantaggi dell’adesione dell’Italia alla moneta unica, avvenuta senza alcun referendum popolare ma solo per decisione dei governi sia di sinistra che di destra, si spiegherebbero nelle esportazioni che avrebbero alimentato la salute delle industrie interne. Il dato, anche se riscontrabile, non ha avuto benefìci tangibili perché negli ultimi vent’anni molte aziende strategiche di tutti i settori (da quelle dell’auto alla griffe della moda), sono state vendute o svendute all’estero con conseguenze nefaste sulle piccole e medie aziende dell’indotto interno. Che negli anni, dopo un apparente incremento dell’occupazione, si sono tradotte in chiusure, delocalizzazioni, precarizzazioni dei contratti e perdite di posti di lavoro.
L’Italia, a differenza della Germania, con l’ingresso nell’euro ha perso la sovranità monetaria e con sé ha perso l’autonomia economica, oltre che la competitività. L’euro stampato da una banca privata che è la Banca centrale europea, è una valuta a corso legale senza i crismi della moneta pubblica perché i banchieri che controllano la Bce rivendicano gli interessi e pure il cosiddetto debito pubblico. La Bce e i banchieri “azionisti” di alcuni grandi gruppi (Goldman sach’s, Mediobanca, Intesa San Paolo, Deutsche tanto per citarne alcuni), tengono con l’anello al naso la classe politica italiana. Dal Parlamento fino ai sindaci dei Comuni più piccoli, che si ritrovano con le mani legate per via dei vincoli di Bilancio e di spesa che impediscono la realizzazione a pieno del welfare pubblico, compresa la manutenzione delle infrastrutture come le strade. Questo dettaglio c’entra poco con le chiacchiere sul raddoppio del costo della vita o meno. Il tema è che il debito che rivendicano a Bruxelles provoca una serie di restrizioni che riducono la qualità della vita dei cittadini e li impoverisce.
Il Covid arrivato nel 2020 sembra voler risolvere in parte il problema della povertà con l’arrivo del Pnrr e degli aiuti alle famiglie e alle imprese. Ma fino a prova contraria questi aiuti hanno il sapore della panacea momentanea, perché si tratta di aiuti sempre a debito nei confronti della Bce. Sta passando in sordina che il debito pubblico italiano s’avvia verso il 3 mila miliardi di euro. Giuseppe Conte, a inizio pandemia, andò a Bruxelles a battere i pugni intimando che “se non ci aiutate voi faremo da soli”, (ergo ci stampiamo moneta e ci arrabattiamo). Frase fatale che gli è costata il ruolo di premier a palazzo Chigi ad opera di Matteo Renzi, e che ha permesso al presidente della Repubblica Sergio Mattarella di nominare primo ministro Mario Draghi, banchiere nonché basista e garante della disfatta italiana al cospetto della Bce di Francoforte.
Basta fare due conti per capire dove siamo finiti: mentre scrivo il debito pubblico è a quasi 2.800 miliardi di euro. Le centinaia di migliaia di euro in arrivo del Pnrr andranno a gonfiarlo. Chiediamoci perché nessuno parla di ristrutturarlo (annullarlo), visto che un importo così, per un Paese come l’Italia che ha 6 milioni di dipendenti pubblici e poche piccole e medie imprese, non ci sarebbe altra via che finire come la Grecia dell’austerità di dieci anni fa.
La presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen, non a caso tedesca, per celebrare i vent’anni dell’introduzione dell’euro in Europa blatera di “valuta potente, simbolo di unità”. Potente certamente per la Germania. Simbolo di unità forzata e dannosa per paesi come l’Italia. Che dopo la vocazione industriale mai come ora avrebbe bisogno di riattivare la propria Zecca per rivendicare la propria autonomia dalle logiche bancarie di Bruxelles. L’Italia dovrebbe stampare moneta pubblica, tagliare i ponti con la Germania e fare come Londra con la Brexit. Qui, a differenza della grigia e cupa Gran Bretagna , potremmo vivere di solo turismo e del suo indotto. Potremmo essere un Paese indipendente e libero. E invece da vent’anni con l’Euro siamo sprofondati nel buio.