Osservo con compiacimento l’evoluzione comunicativa del Movimento 5 stelle in televisione. Dalle prime imprudenti uscite sulle scie chimiche, attraverso gli insulti borgatari in aula rivolti ai partiti, fino alle attuali interviste salottiere di Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio: il primo è diventato l’interprete perfetto della purezza morale. Abilissimo nel veicolare l’adrealina in lacrime di pathos. Il secondo rappresenta l’argine al commovente sogno della perfezione. Colui che ad ogni problema ha sempre una soluzione, garbata, pacata, moderata, sempre lì alla portata ma quasi sempre apparente. Queste due voci del direttorio a 5 stelle, Di Battista e Di Maio, rappresentano lo strumento e l’organo di un orgasmo collettivo. La platea televisiva rappresentata da una Woodstock proletaria tutt’altro che virtuale, si abbevera di questo distillato di grillismo dolce e fragrante, ma dal retrogusto amaro. Quello della consapevolezza che anche alla perfezione manca sempre almeno un difetto. Non trovarlo incute sospetto e uno strano disagio, ma non ci badiamo perché le divine movenze e l’ossessiva perfezione delle parole dei due eroi grillini, ci inebriano al punto che ci sfugge la loro irragionevole solitudine politica. Quel grillismo indifferente al giudizio terreno, ha trasformato in perfetto anche l’errore di Quarto, dove tutto è sembrato alla portata e tutto si è risolto con l’espulsione e col rimando. Infatti, il punto debole della perfezione è la procrastinazione, il non cominciare mai tergiversando nell’infinità dell’umana imperfezione affannandoci per un progetto che rischia di rimanere un eterno sogno. Aristotele diceva che le persone perfette non combattono, non mentono, non commettono errori e quindi non esistono. Ecco, magari, per essere credibili, se nessuno intorno a noi sembra essere all’altezza, forse è meglio che controlliamo il nostro metro della ragione e della realtà. Di Maio e Di Battista rappresentano il brand di un Paese ideale che non esiste. Sono attori di un incubo dal quale ci svegliamo alla fine dell’intervista ideale, quando dovremo tornare a guardare in faccia gli italiani d’Italia. Con l’amaro in bocca.