Ragazzini di 12 anni capi-bische che si fanno chiamare “Diabolik”. Faccendieri arrestati per spaccio di cocaina a cantanti e politici. Il mondo degli stupefacenti è universale e profondamente inserito in tutti gli ceti sociali. E’ una delle travi portanti delle economie parallele, quelle sommerse e arricchite sul vizio, o sul bisogno umano più comune di vivere la realtà alterata. Cocaina, eroina, oppio, spinelli, lsd, acidi e chi più ne ha più ne metta, si calcola che tre giovani su quattro al di sotto dei vent’anni, negli ultimi quarant’anni, abbiano provato almeno una volta qualche sostanza stupefacente. Del resto lo stupefacente rimane una trasgressione intramontabile. Considerata un vessillo di autonomia e un distintivo di gruppo, dire droga è come imbattersi in una battuta di funghi. Ce n’è di buona e di cattiva, a seconda degli effetti che provoca all’organismo e di come viene “tagliata”. Proprio gli effetti dovrebbero costituire il riferimento del legislatore per regolamentarne l’uso e il consumo, considerando che è certamente sensato distinguere le droghe leggere dalle droghe pesanti. Com’è altrettanto sensato considerare le droghe un mezzo terapeutico. La legislazione europea in tal senso, tranne in pochi casi come l’Olanda, è essenzialmente proibizionista. In particolare in Italia, la famigerata legge Fini-Giovanardi in un decennio di rodaggio ha contribuito a sovraffollare le carceri di piccoli spacciatori senza portare alcun beneficio alla prevenzione della tossicodiependenza.
Gli stupefacenti continuano ad essere il core business della criminalità organizzata e delle mafie, a cominciare dalla ‘ndrangheta. Una vera e propria industria dello “svago” che si alimenta e si arricchisce senza alcun controllo della qualità delle sostanze spacciate. E’ infatti sempre alto il rischio di imbattersi in partite di droga tagliata male. Spesso e volentieri ci scappa il morto nelle discoteche per aver ingerito o inalato veleni col pretesto di raggiungere “lo sballo”. Sballo che il più delle volte, se non porta alla morte, porta a danni cerebrali permanenti. Sono tantissimi i giovani che si sono rovinati con le cosiddette pasticche di acidi acquistate il sabato sera all’esterno dei locali. Droghe sintetiche che una volta inalate avvelenano il sangue che raggiunge il cervello nell’arco di un minuto. Sono droghe devastanti che creano dipendenza, come il tabacco, la più tradizionale e comune “droga” legale, certamente non salutare ma senz’altro meno dannosa. L’uso e l’abuso delle droghe sono un dramma sociale che mai nessun governo si è seriamente impegnato di contrastare. I rapporti Onu degli ultimi anni rivelano che, per esempio, in Afghanistan, diminuisce la produzione di oppio a fronte di un costante aumento della coltivazione. Quei documenti, ogni anno, esortano a colpire i trafficanti anziché i contadini perché sono i trafficanti quelli che esportano una percentuale di oppio destinata al mercato illegale degli stupefacenti di cui si alimentano le mafie, soprattutto dell’Italia.
Il Bel Paese è la prima raffineria europea di sostanze stupefacenti e il primo esportatore di cocaina in Europa. Nelle fogne di Milano ne scorre a fiumi e se qualcuno al parlamento chiede il narcotest agli onorevoli, apriti cielo! Quando lo fece Carlo Giovanardi, soltanto 28 parlamentari risposero al suo appello sottoponendosi al test. 28 su quasi mille! Eppure sono molti i politici lambiti da vicende di droga. Dall’ex governatore del Lazio Piero Marrazzo, reo confesso di aver acquistato coca nell’inchiesta che gli ha giocato la carriera politica per la relazione con un transessuale, passando per Giampi Tarantini, l’imprenditore pugliese che forniva escort a Silvio Berlusconi; da Cosimo Mele, ex parlamentare dell’Udc finito nei guai per un malore della sua amichetta segreta Francesca Zenobi, detta Pocahontas; fino all’ex viceministro delle finanze Gianfranco Micciché, di Forza Italia definito da un’informativa dei Carabinieri un consumatore abituale di cocaina che gli veniva fornita fin dentro il ministero. Pare finita nel dimenticatoio la condanna a 14 anni e mezzo in primo grado inflitta a Giampaolo Ganzer, ex generale del Ros, il reparto dell’eccellenza dei Carabinieri. La sentenza emessa nel luglio 2010 da un collegio di giudici del tribunale di Milano, ha riconosciuto colpevole l’alto ufficiale di traffico internazionale di droga per aver sottaciuto e coperto, con la presunta collaborazione di un magistrato (Mario Conte, poi assolto in un processo stralciato per motivi di salute), l’accatastamento di svariati quintali di droga in un magazzino da rivendere sul mercato illegale. La droga in questione era il frutto di sequestri effettuati ai porti con l’aiuto di infiltrati, e di partite recuperate sul territorio dalle pattuglie notturne dislocate in prossimità di locali e discoteche lombarde negli anni Novanta, quando Ganzer vestiva il grado di Maggiore e coordinava l’attività di contrasto allo spaccio. Va da sé che dopo la sentenza ci siano voluti diversi mesi prima delle dimissioni dell’alto ufficiale. Va da sé pure l’attestato di “fiducia” da parte dell’allora titolare del Viminale Bobo Maroni (Lega nord).
Quando la droga si fa istituzione, è difficile che si inneschino politiche efficaci per dissuaderne all’uso. La Fini-Giovanardi che equipara droghe leggere e droghe pesanti come se avessero lo stesso effetto sulla salute umana, si è rivelata una legge banalotta che sembra fatta apposta per fare da specchietto per le allodole. Ci vuole ben altro per contrastare il mercato degli stupefacenti che finanzia i troppi interessi nascosti. Un contrasto efficace all’ipocrisia che avvolge l’industria della droga dovrebbe provenire soltanto da una classe politica slegata dagli affari loschi e, soprattutto, non tossicodipendente. Da lì, forse, si potrà regolamentare meglio il mercato dei vizi e proporzionare le sanzioni in funzione dei danni. Che sono sempre tanti. Troppi, alla salute dei nostri figli.
Questo articolo è pubblicato sull’ultimo numero di Dolce Vita.