E’ ormai consacrata l’effimera illusione dell’ennesimo narciso salito sulla giostra del circo nazional-popolare dei talk televisivi. Quell’illusione si chiama Matteo Renzi, sindaco “per gioco” di Firenze che a forza di dichiararsi modestamente inadatto a fare il leader, ha finalmente coronato il suo sogno: quello di diventare qualcuno, o almeno di illudersi di esserlo, vestendo i panni del segretario di partito. Il cosiddetto Partito democratico, carrozzone del ‘900 che come un disordinato bazar, abbraccia un coacervo di piccoli e grandi potentati, controlla voti di operai iscritti ai sindacati, quelli che Renzi ha sempre detestato, e alimenta le speranze di un considerevole numero di capibastone che cercano di colmare in politica la loro frustrazione da anonimato. Non importano gli obiettivi collettivi. Conta esserci, conta apparire, conta dichiarare per il solo obiettivo di ritagliarsi un approdo sicuro nel mare tempestoso della crisi economica, dell’incertezza del futuro, e dello smarrimento di un esercito di disagiati da cui ricevere fiducia, tifo e sostegno in cambio delle solite, effimere promesse. Un posto di lavoro (visto che il lavoro è un’altra cosa), uno stipendio dignitoso o qualche appalto pubblico. Tutto questo e anche peggio, è il Pd. Un partito che nonostante il turn over di segretari tutti uguali e monocordi, è riuscito a convogliare alle primarie del 2013 quasi tre milioni di elettori. Molti meno rispetto al Pd in fasce dell’epoca Veltroni di sei anni fa, ma comunque ancora tanti. Una parte di quegli elettori ha scelto Renzi a rappresentare i loro interessi e le loro aspettative. Lì dentro ci sono i correntisti del Montepaschi, i dipendenti di qualche cooperativa rossa, democristiani medio-borghesi lambiti dalla crisi soltanto nei loro lauti risparmi, qualche fortunato superstite tra dipendenti e operai e qualche idealista che crede ancora alla destra e alla sinistra. I lobbisti, quelli che di lavoro fiatano i loro ricatti sul collo dei parlamentari in sede di voto o nelle commissioni, sono la vera faccia del potere del Pd, che uguale a quella del Pdl. Sono loro i burattinai che determinano le sorti di questo disgraziato Paese. Non Renzi. Renzi è solo il testimonial che cerca di scimmiottare Berlusconi nella speranza di ammantarsi di quid. Spazia da un improbabile completo grigio alla cerimonia di auguri di Napolitano, al chiodo da liceale adatto al pubblico della De Filippi. Vestilo e imbastiscilo come vuoi, Renzi garantisce con aria da tenerone il sorrisino da castoro, il ditino puntato e la battutina da grillino che alla peggio sferza con la forza di un ventaglio in pizzo la destra e la sinistra. Matteo Renzi lo ha raggiunto il suo obiettivo: quello di apparire un fenomeno mediatico al quale conviene sfruttare la massima visibilità possibile, perché fra tre o quattro mesi rischia di essere inghiottito dall’oblìo. Per il rottamatore è un investimento su sé stesso apparire rivoluzionario. Del resto non ha altre soluzioni la cura del suo narcisismo nell’arido panorama politico italiano. Perché non ci sono più i partiti e perché nel Movimento 5 stelle Renzi non avrebbe chances. La platea televisiva assai più numerosa di chi lo ha votato alle primarie del Pd, vede Renzi come l’ultimo figuro imposto da non si sa bene chi, che cerca di incantare i serpenti affastellando tutto e il contrario di tutto. Quando parla sembra una mitraglietta, Renzi. E’ con quel timbro da mister Bean e con quelle movenze da adulto che Renzi ha passato gli ultimi anni a spergiurare i Veltroni e i D’Alema, alleati di Berlusconi, nel tentativo di rottamare l’establishment del partito. Oggi che in qualche modo li ha scalzati dal trono, eccolo il Renzi con la sua vera faccia. Che nelle vesti di segretario di partito ri-pianifica un incontro col pregiudicato di Arcore per discutere non si sa bene di che cosa. Sì perché Renzi non usa la rete. Non si consulta con i suoi elettori su Internet sul da farsi. Il profilo su Twitter e quello su Facebook sono solo vetrine per allodole. Lui fa il politicante come tutta la vecchia politica. Parla dai palchi, in radio, in tivù e detta la linea, come un Berlusconi o un Monti qualunque. Renzi è il più giovane dei vecchi politici. Quello che serve al sistema dei poteri forti per contrastare l’avanzata dei movimenti “populisti” in primis quello di Grillo. Il quid artificiale di Renzi serve ad incantare qualche berlusconiano, qualche democristiano, qualche sinistroso e, chissà, qualche grillino pentito delle urne. Non ci sono alternative a un calderone super largo sotto l’egida di un solo partito per contrastare il M5S. Renzi è questo che cerca di fare. Cerca di piacere a destra e a sinistra perché dietro il suo culo c’è un sistema bipartisan consolidato che difende il proprio potere e le proprie commistioni. Poco importa se il sindaco Renzi è apparso in consiglio comunale per meno della metà delle sedute garantite dal suo alter-ego, il vicesindaco e pure deputato Dario Nardella. Non importa se ha una condanna in primo grado per danno erariale. Ciò che conta è che Renzi, oggi, faccia esattamente quello che facevano i suoi predecessori che per anni ha criticato e detto di rottamare. Con una differenza. Che D’Alema aveva il pudore di fingere di contrastare Berlusconi, e Veltroni non lo nominava nemmeno. Questo, invece, è proprio per l’inciucio plateale. Le cronache ritrarranno presto Renzi da Berlusconi, due che si filano da anni, visto che il pregiudicato di Arcore disse tre anni fa «Provo schietta simpatia per quel giovane così diverso dai soliti parrucconi della sinistra. Un po’ mi somiglia, è fuori dagli schemi» (6 dicembre 2010). La risposta del Renzi odierno riduce la parola inciucio a complimento: «È il leader del terzo partito in Parlamento, come facciamo a tenerlo fuori dalla porta?».