«Non ho proposto l’abolizione del finanziamento pubblico per caso. Mica possiamo stare qui ad aspettare che Grillo ci prenda per il sedere. A me non va che sia lui a dirci cosa dobbiamo fare. Non mi faccio dettare l’agenda da lui». Inizia da qui la coerenza del sindaco rottam’attore Matteo Renzi, che come Berlusconi, è già uso e usurato a ribaltare la realtà. E’ lui che insegue Grillo e il Movimento 5 stelle. A parole, naturalmente. Soprattutto ora che capisce di avere vita corta in politica. A soli 38 anni, Renzi, sa bene quant’è importante la reputazione in rete. La grande piazza condivisa che non dimentica. Soprattutto le cazzate e le incoerenze. E Renzi, lo sappiamo, di cazzate ne ha già dette e ridette da fare invidia a un Antonio Razzi o a un Clemente Mastella qualunque. Quando ancora il sindaco rottam’attore non poteva prevedere l’exploit del M5S alle ultime elezioni politiche, faceva il ganzo sui giornali. Nel luglio del 2011, con i primi sondaggi che davano in crescita il comico, dichiarava a proposito della manifestazione anti-Tav: «Un tempo Grillo faceva ridere, oggi fa schifo. È desolante che un uomo come lui totalmente inserito nel sistema di questi 30 anni di Italia si permetta di utilizzare parole assurde. I suoi post fanno più danni dei sassi. Credo, e spero, che cresca la consapevolezza – anche dentro il “Movimento 5 stelle” – che una cosa è denunciare i limiti della politica, altra intervenire su vicende in cui ci sono 100 feriti con linguaggio da teppista. Io sono favorevole ad alcune proposte di Grillo, ad esempio dimezzare i parlamentari, togliere i vitalizi, mandare a casa i parlamentari dopo tot legislature».
Siccome chi si informa in rete non dimentica, sa già di che razza di sindaco rosso è Renzi. La sua visita di stampo massonico fatta a Berlusconi ad Arcore nel 2010, lo aveva già colorato: un sindaco rosso indaco, tonalità azzurreggiante che ricorda le tinte di Forza Italia. Postribolo di ex democristiani che, esaurita la mission del puttaniere-corruttore, hanno bisogno di qualcuno che dia una qualche parvenza di quid. Il sindaco rottam’attore Renzi, la sua porca figura sul palco dei teatranti la fa. Calca gli schermi di Fazio, di Ballarò e va pure dalla De Filippi vestito col chiodo. Piace alla sinistra penni-Vendola, quella dei Curzio Malintese, degli Ezio Vauro, degli Eugenio Scafandri, delle Maria Novella Oppio e delle Concitate De Gregorio. Ha dalla sua l’età anagrafica. Solo quella, perché nel gerontocomio del leaderismo italico, il politico Renzi appare giovane, con faccia paciosa dai tratti nostranotti, accento toshano e figlio di papà massone. S’incastra bene con dinosauri bipartisan tipo Violante e Alfano, ma pure con De Luca, il sindaco indagato di Salerno che, come Bossi, cerca di sistemare il suo “Trota” in politica.
Renzi non ha chanche in rete. Gli conviene dare addosso a Grillo sui giornali e sulle tivù ripetendo a pappagallo i punti del programma del M5S. L’11 maggio 2012, al Corriere Renzi dichiara che «Grillo dovrebbe fare un monumento ai partiti politici. Lui è il campione delle contraddizioni: ha sempre affermato tesi che ha poi smentito. Mi riferisco al testimonial e poi fustigatore degli spot…». 12 giorni dopo, il 23 maggio, quando il M5s ha già un considerevole numero di eletti nelle istituzioni, e Bersani è un conclamato Gargamella, Renzi appiccica una pezza peggiore del buco ammettendo che «Grillo deve tutto il suo successo alle incertezze dei dirigenti dei partiti tradizionali che non hanno colto la richiesta di cambiamento profondo che viene dalla gente. O si ha il coraggio di una radicale rivoluzione delle forme della politica e dei volti dei politici, oppure ci troviamo Grillo al 20%». Presagio in difetto, per il rottam’attore, almeno alle politiche dello storico 25%, precedute dalle elezioni regionali in Sicilia, per le quali Renzi si è speso in un comizio a Niscemi cominciato dopo oltre 3 ore di ritardo, giustificato così: «Colpa dell’aereo… La prossima volta invece di volare con Alitalia in Sicilia ci vengo a nuoto come ha fatto qualcun altro. Tra l’altro sembra che porti pure fortuna». Il 14 febbraio 2013, alla vigilia delle elezioni politiche, dopo l’inatteso risultato ottenuto dal M5s in Sicilia, Renzi sente che il Movimento scuoterà il bipolarismo destra-sinistra anche a Roma. Eccolo più accomodante al comizio di Orzinuovi, in sostegno di Umberto Ambrosoli, candidato (perdente) del Pd alle regionali lombarde: «Ha ragione da vendere Grillo quando dice che la politica ha bisogno di moralità, ma lui ne fa solo protesta, noi possiamo dare una speranza concreta: la politica è una cosa troppo bella per lasciarla fare ai soliti noti».
Il 20 febbraio, mentre Grillo riempie le piazze, Renzi vede la malparata della possibile ondata di voti. E ribalta il suo giudizio sul Movimento: «È sempre meglio avere 100 grillini in Parlamento che 100 leghisti. Il Pd faccia propri i temi dei costi della politica e dell’innovazione digitale e ambientale». Il 23 febbraio, ultimo giorno di campagna elettorale, Renzi tenta di esorcizzare gli elettori intenzionati a votare il Movimento: «Grillo non vuole governare, vuole suscitare scandalo, ma qui c’è un Paese da rimettere a posto e il voto a Bersani serve a questo». Il 6 marzo le elezioni hanno già dato il loro verdetto. Il M5S è al 25%, e Renzi s’ingrilla: «Noi non dobbiamo inseguire Grillo, dobbiamo sfidarlo sul suo terreno, quello dell’innovazione. In tutta la campagna elettorale ci siamo fatti dettare l’agenda da Berlusconi. Ora, con la campagna finita, non possiamo farcela imporre da Grillo. Propongo una ricetta di riforme pesanti in 4 step. Primo, abolire il finanziamento pubblico ai partiti. Secondo, cancellare i vitalizi ai parlamentari. Terzo, trasformare il Senato in Camera delle autonomie, i cui componenti verrebbero designati e dunque retribuiti dagli stessi enti locali, comuni e regioni. Quarto, l’abolizione delle Province». Il 10 marzo, con Grillo che ha già dimostrato di mantenere la promessa di non allearsi coi partiti, Renzi va ospite da Fabio Fazio e assicura: «Non credo ci sia la possibilità di un esecutivo Pd-Pdl, almeno politico». Detto, fatto. Il 4 aprile, dopo lo streaming di alleanze fallite da parte di Bersani col Movimento, il rottam’attore si ribalta. Ad Aldo Cazzullo dichiara: «Il Pd deve decidere: o Berlusconi è il capo degli impresentabili, e allora chiediamo di andare a votare subito; oppure Berlusconi è un interlocutore perché ha preso 10 milioni di voti… Io non voglio Berlusconi in galera, lo voglio in pensione… Se il Pd ha paura delle urne deve dialogare con chi ha i numeri… Il Pd avanzi la sua proposta, senza farsi umiliare dalla capogruppo dei 5 Stelle, che ha dimostrato arroganza e tracotanza nei nostri confronti… sono andato ospite dalla De Filippi indossando il chiodo perché rivendico il diritto e il dovere di parlare ai ragazzi che seguono Amici, che non sono meno italiani dei radical chic che mi criticano…”.
Il 14 marzo, quando finalmente anche Renzi realizza che il Pd di Bersani non potrà mai allearsi col M5s, sogna il ritorno alle urne con lui candidato premier: «Prendo atto della strategia di Bersani di aprire a Grillo. Gli ho detto: in bocca al lupo, faccio il tifo per te. Ma mi sembra improbabile che ci riesca. O Grillo cambia idea o noi cambiamo strategia». Abbiam visto che esito ha dato la strategia del Pd: è stata quella di fare finalmente coming out e di allearsi col Pdl. Che Renzi, il 7 aprile, ingoia così: «Le elezioni mi sa che non le vogliono in tanti… Noi dobbiamo abituarci alla serenità, alla serietà e alla coerenza. Io non so se la situazione di un governo Pd-Pdl sia quella che davvero i dirigenti romani sceglieranno...». Roba da fare invidia a Scilipoti! Tanto che il 16 aprile, il rottam’attore accetta l’invito di Barilla a Parma per la festa del centenario del capostipite Pietro. Poco prima del convivio, battono le agenzie “Renzi e Berlusconi s’incontrano al Teatro Regio. E prima di sedersi a un paio di metri l’uno dall’altro in platea, Berlusconi in cima alla quarta fila alla destra del palco, Renzi in quinta dalla parte sinistra, si chiudono per 15 minuti in una saletta del teatro...”. Intanto per l’elezione del capo dello Stato al Quirinale vengono sacrificate le candidature di Stefano Rodotà e di Romano Prodi, grazie a 101 franchi tiratori del Pd. Giorgio Napolitano viene eletto per la seconda volta presidente della Repubblica. Grillo urla al golpe. Reazione di Renzi: «Parlare di golpe è ridicolo. Adesso il Pd ha l’occasione di cambiare davvero, senza paura. Ci proveremo». In che modo, dopo aver silurato Prodi, il rottam’attore non lo dice.
Il 22 aprile Renzi, non ricorda nemmeno più di essere un sindaco in contumacia: «La mia ambizione è cambiare l’Italia e cambiare un partito che riflette sul suo ombelico. Non so come, non so quando candidarmi alle primarie del Pd, ma io ci sono. Non sono in cerca di una seggiola. La linea di Bersani è stata sconfitta. Il partito vuole proteggere solo la sua classe dirigente? Non ci sono. Vuole cambiare l’Italia? Allora cambiamo il partito per cambiare l’Italia e io ci sono. Rifondiamolo con un riformismo che scalda i cuori, con un’anima. Dobbiamo essere capaci di esprimere un nuovo racconto». Ora che il Pd ha eletto segretario Matteo Renzi, il Pd non ha ancora rinunciato ai finanziamenti. La classe dirigente, a parte aver silurato (per finta) la Bindi dalla presidenza rimpiazzata qualche faccia giovane ex ripetente, non è cambiata. E di nuovi racconti, oltre che di prospettive rivoluzionarie, non se ne sentono e non se ne vedono. Insomma, Renzi con le sue recite da saltimbanco ha certamente rottamato la sua credibilità, mentre il Pd è un costoso rottame fermo ai box della partitocrazia. Una nuova tornata elettorale lo seppellirà.